Molti esperti sostengono che le cosiddette pensioni baby costanoa lle casse dello Stato circa 7 miliardi di euro all’anno(pari allo0,4 per cento del Piln azionale).

Praticamente lo stesso importo previsto quest’anno per il reddito/pensione di cittadinanza eaddirittura superiore di quasi 2miliardi della spesa necessaria nel 2020 per pagare gli assegni pensionistici a coloro che beneficeranno diquota 100. A fare i conti ciha pensato l’Ufficio studi della CGIA che ha “recuperato”i dati Inps riferiti aip ensionati baby presenti nel nostro Paese e li ha confrontati con la dimensione economica del reddito di cittadinanza e di quota 100. Due misure, queste ultime, che sono nel mirinodall’Unione Europea.

Non è da escludere, infatti, che Bruxellesci chieda di rivederle, in caso contrariocorriamo il pericolo che una parte degli aiuti previsti dal“Next Generation EU” ci siano negati.Afferma il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo:“Il termine baby pensionati è ovviamente informale, non ha alcun fondamento legislativo e abbiamo deciso di racchiudere in questa categoria coloro che hanno lasciato il lavoro prima della fine del 1980. In totale sono quasi 562mila le persone che non timbrano più il cartellino da almeno 40 anni.

Di queste, oltre 386 mila sono costituite in massima parte da invalidi o ex dipendenti delle grandi aziende. Sei primi hanno beneficiato di una legislazione che definiva i requisiti in misura molto permissiva, i secondi, a seguitodella ristrutturazione industriale avviata nella seconda metà degli anni ’70, hanno usufruito di trattamenti in uscita dal mercato del lavoro molto generosi.

Dopodiché,contiamo altri 104 mila ex lavoratori autonomi, oltre la metà proveniente dall’agricoltura,e solo una piccola parte, parial 10,6 per cento del totale che corrisponde a poco meno di 60 mila unità, è formata, invece, da ex dipendenti pubblici.Ricordo che molti di questiimpiegati hanno potuto lasciare definitivamente la scrivania dell’ufficio in età giovanissima, grazie alla legge approvata nel 1973 dalgoverno allora presieduto da Mariano Rumor” (vedi Tab. 2).

Sebbene queste 562 mila persone si sianoritiratedal mercato del lavoro prima della fine del1980, gli effetti economici di queste decisioni politiche si fanno sentire ancora adesso.Sottolinea il segretario della CGIA Renato Mason:“Le pensioni baby sonouno degli esempi più clamorosi di comel’Italia,dopo la crescita registrata nei primi decenni del secondo dopoguerra, abbia successivamente abbandonato l’idea di fondare il proprio futurosulla solidarietà intergenerazionale.

In materia previdenziale, ad esempio, fino agli inizi degli anni ’90 abbiamo scambiatoil benessere raggiunto in diritto acquisito, scaricando i costi sulle nuove generazioni. Igiovani di oggi, infatti, spesso lavorano con contratti a termine, percependobuste pagamolto leggere.

Nonostante ciò,sono chiamati adare il loro contributopercoprire gli assegni generosi versatialle vecchie generazioni andate in quiescenzacon il sistemaretributivo,mentre la propria pensione,strettamente legata ai contributi versati,quasi certamenteavrà dimensioni economiche molto contenute”.

Tra i pensionati baby sono i dipendenti pubblici ad aver lasciato il posto di lavoro in età più giovane (41,9 anni), mentre nella gestione privata l’età media della decorrenza della pensione è scattata dopo (42,7 anni).

In entrambi i casi, comunque, l’abbandono definitivo del posto di lavoro è avvenuto praticamente con 20anni di età in menorispetto a chi,oggi,usufruiscedi quota 100. Attualmente, le persone