La nostra industria, la seconda manifattura d’Europa, frena. Secondo l’Istat, a marzo la produzione industriale segna l’ennesima flessione. Sono ormai 14 i mesi consecutivi negativi: l’ultimo aumento dell’indice risale al febbraio 2023. Il calo riguarda quasi tutti i principali settori. In particolare, crollano abbigliamento e accessori (-9,3%) rispetto a marzo 2023), mezzi di trasporto (-8,8%) e macchinari (-5,9%). Fanno eccezione i prodotti chimici, petroliferi e farmaceutici. Un altro dato mi fa riflettere: nel 2010 – un periodo non complessivamente favorevole per la nostra economia – in Italia nacquero 400mila nuove imprese, nel 2023 la cifra è scesa a 300mila”. Inizia così una riflessione sull’andamento dell’economia italiana di Ubaldo Livolsi, professore di Corporate Finance e fondatore della Livolsi & Partners S.p.A..
“È vero- spiega- come è stato ricordato da alcuni osservatori, sull’industria italiana pesa ancora l’onda lunga del caro-prezzi, che per note ragioni – a partire dall’aumento del costo dell’energia e delle materie prime, seguito alla guerra russa-ucraina – ha gravato negli ultimi due anni e avuto effetti importanti sulla spesa e sui consumi delle famiglie. Tuttavia, a mio parere, il vero problema è che l’Italia – e l’Europa che necessariamente ne condiziona le scelte (troppo spesso anche quelle non obbligate) – si sia come dimenticata del ruolo essenziale e fondamentale dell’industria. Nel 2023 l’export di beni italiani in tutto il mondo ha superato i 660 miliardi di euro, ma l’impressione è che si creda che il comparto manufatturiero nella sua totalità possa vivere di rendita. Nulla invece è scontato. Sembra che il nostro Paese viva di riflesso di quella visione eurocentrica tutta incentrata sul green deal dell’Unione europea, proiettata a fare dell’area dei 27 la prima al mondo competitiva e a zero emissioni. Intanto, pur beneficiando di otto anni di interessi a tassi zero e con costi dell’energia relativamente bassi, è cresciuta meno degli Stati Uniti e della Cina. Quest’ultima trenta anni fa rappresentava solo il 4% della manifattura mondiale, adesso oltre il 30%. La volontà, pur imprescindibile e condivisibile, di arrivare a una economia sostenibile, sta creando dei paradossi in cui sembra trarne vantaggio proprio la Cina. Se l’Europa pone la scadenza del 2035 per la messa in soffitta dei motori a combustione, per parte sua il Dragone produce il 90% dei pannelli fotovoltaici, il 60% della tecnologia eolica e il 75% delle batterie per auto elettriche“.
“La chiave di volta, soprattutto per quanto riguarda l‘Italia, è l’industria- sottolinea ancora Livolsi- Il nostro Paese ha il vantaggio, oltre che di poter partire dal fatto di essere la seconda economia manifatturiera d’Europa, di avere, da un lato quella capacità, apprezzata nel mondo, di abbinare creatività, qualità, gusto e saper fare con la tecnologia e l’innovazione (made in Italy), dall’altro le nostre imprese e i nostri imprenditori hanno quell’attitudine di essere radicati sui territori e di realizzare un gioco di squadra: pensiamo al sistema dei distretti industriali, che hanno fatto la fortuna della nostra economia – e che andrebbero ripotenziati e il cui paradigma preso a modello e trapiantato in territori industrialmente meno sviluppati. Il nostro Governo – e i nostri ultimi Esecutivi – hanno fatto tanto per sostenere la nostra industria: dal piano Industria 4.0 – che nel suo primo anno distribuì 13 miliardi di incentivi fiscali e 10 di investimenti – alle nuove iniziative dell’Industria 5.0 nell’ambito di Next Generation Eu – con il sistema di interventi di quest’ultimo che aiuterà l’industria se riuscirà a cambiare il sistema Paese nel suo complesso: amministrazione, fisco, giustizia, infrastrutture, scuola e università”.
“Vorrei concludere con un appello alle banche- scrive Livolsi- che stanno facendo utili e i cui risultati sono apprezzati dal mercato, come dimostrano i livelli record di capitalizzazione dei principali istituti italiani. L’auspicio è che questa ricchezza non si traduca solamente nell’ennesima restituzione di valore agli azionisti, ma che queste risorse siano indirizzate anche agli investimenti, alimentando l’economia reale – da cui poi dipende anche la solidità del sistema bancario – e finanziando le imprese, le famiglie, i giovani e le nuove aziende”.